Quando Frank Ocean disse NO ai Grammy Awards (di Francesca Pugliese)

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4 marzo 2017 di Francesca Pugliese

Frank Ocean non è uno sprovveduto e ha più di un asso nella manica.

Lo si era gia intuito dalla pubblicazione del suo ultimo album, Blonde, promosso in maniera indipendente e senza il sostegno della sua casa discografica. Se vogliamo proprio essere precisi, la Def Jam (parte di Universal Music Group) aveva ricevuto una sorta di “buona uscita” con Endless, un visual project che ha fatto da apripista per la pubblicazione dell’album ufficiale. Ciò non ha impedito alla casa discografica di licenziare Ocean appena scoperto il doppio gioco. Si è trattato senza dubbio di un colpo da maestro che ha garantito al cantante il 70% dei guadagni totali sul disco, stando all’accordo stipulato in esclusiva con Apple Music.
Inutile dire che se un artista ha bisogno di ricorrere a questi mezzi per poter pubblicare i suoi progetti e far ascoltare la sua musica, significa che esiste un problema di fondo e riguarda l’eccessiva interferenza delle case discografiche nel lavoro dei loro protetti. Divergenze, punti di vista inconciliabili. Chiamateli come volete. In un nuovo capitolo di questa storia infinita i “cattivi” hanno perso. L’eroe ha vinto.

Fine della storia? Non proprio.

Nella sua crociata contro l’establishment musicale americano, Frank Ocean si è scontrato anche con i potenti “Signori dei Grammy”, scatenando non poche polemiche e una serie di accuse reciproche. Per Ken Ehrlich e David Wild, rispettivamente produttore e autore principale dello show, Ocean non ha ancora superato la delusione di un’esibizione non proprio brillante nell’edizione del 2013, a causa di problemi tecnici. Frank, invece, ribadisce con veemenza che i Grammy sono un’istituzione nostalgica che non ha più alcun valore e ha perso contatto con la realtà musicale degli ultimi anni.
La cosa migliore è fare musica in maniera indipendente, senza legarsi a nessuna etichetta discografica. E spesso, gli album prodotti con questa modalità si rivelano un grande successo di pubblico e critica, come Coloring Book di Chance The Rapper che ha partecipato ai Grammy Awards 2017 portandosi a casa ben tre premi.

Già. Proprio ai Grammy. Anzi, ai #GrammySoWhite, per utilizzare il famoso hashtag che ha l’obiettivo di attirare l’attenzione sui grandissimi artisti che popolano l’universo musicale e a cui spesso è negato il giusto riconoscimento, indipendentemente dal colore della pelle e dalla cultura da cui provengono.

Tuttavia, monopolizzare l’attenzione sul “Caso Lemonade” o sul rifiuto di partecipare alla premiazione di Frank Ocean, Drake o Kanye West, com’è successo in quest’ultima edizione, non ha fatto altro che danneggiare la causa che sostengono i #GrammySoWhite. Perché non continuare a prendere parte a questi eventi e usarli come piattaforma per diffondere la propria musica e la propria arte? Perché non dare spazio a artisti, magari nominati per la prima volta e in generi musicali di nicchia, che possono utilizzare un palcoscenico così importante per farsi conoscere e apprezzare da un pubblico più vasto? È stato fatto magistralmente da Kendrick Lamar l’anno scorso che, oltre a vincere cinque Grammy per To Pimp a Butterfly, si è esibito con i brani “The Blacker Berry” e “Alright” ed è stato classificato da Rolling Stone e da Billboard come uno dei migliori spettacoli televisivi in diretta della storia.

Invece l’attenzione si è concentrata solo sul grande “scontro” della serata: Adele vs. l’intoccabile Beyoncé. La vincitrice, come ormai tutti saprete, è stata Adele che ha portato a casa tutti e cinque i Grammy per cui era stata nominata, incluso Album of The Year, premio che, secondo molti, doveva essere assegnato a Lemonade. La stessa Adele ha generosamente dedicato il suo discorso allo straordinario talento della collega, privandosi del suo momento di gloria per omaggiare un’artista che ha sempre ammirato e che, con il suo ultimo lavoro, ha fortemente influenzato le donne afroamericane. Eppure Adele è stata criticata per questo gesto. Non da chi le ha assegnato il premio. Ma dai “black friends” – così come li ha chiamati lei – che si è permessa di citare nel suo discorso. Nonostante rappresenti il “privilegio bianco” contro cui si scagliano i #GrammySoWhite, è stata l’unica artista che, durante la cerimonia, ne ha difeso gli ideali. E non era tenuta a farlo.

Se su quel palco ci fossero stati Frank Ocean, Chance The Rapper, Drake o Justin Bieber a prendere il premio al posto di Beyoncé, avrebbero pronunciato le stelle parole di Adele? Avrebbero omaggiato la collega sacrificando il loro momento di visibilità? E se fosse stata Beyoncé a vincere il titolo di Album of The Year, invece, avrebbe spezzato il premio a metà per condividerlo con loro?
Sono stati pubblicati numerosi articoli su questa questione, con varie illazioni, accuse di razzismo ma anche proposte più o meno valide, da una riforma dei metodi di selezione utilizzati dai Grammy (così com’è stato fatto per gli Oscar), alla creazione di nuove istituzioni che possano assegnare premi in maniera indipendente. Però, quando questi premi “minori” vengono creati, nessuno dei grandi artisti vi partecipa, sminuendone il valore.

Tutti cercano visibilità e i Grammy sono e saranno sempre un’ottima occasione per ottenerla. Ma chi merita questa visibilità? Si può parlare ancora di meritocrazia in cerimonie così importanti o solo di opportunismo?


Frank Ocean una risposta ce l’ha e non lascia dubbi in proposito:

 “Continuate ad ascoltare la musica sul vostro vecchio grammofono, ragazzi, [rivolgendosi ai produttori dei Grammy], io sono uno dei migliori artisti viventi.”

Come sempre… al pubblico l’ardua sentenza.

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